La piccola Miku-chan


[RACCONTO]
Quando incontrai la piccola Miku la brina bianca sull’erba dei prati ricordava al mattino che la primavera era in corso d’opera. Ed ero solo.
   “Questa folle stagione ha un modo tutto suo di dimostrare il proprio amore alle piante,” pensavo mentre passeggiavo nel parco “sembra quasi una madre sconsiderata, che lascia i propri figli fuori dall’uscio di casa per punirli senza motivo. Poi la mattina, al sorgere del sole, li abbraccia e prepara loro la colazione, come a congratularsi per essere stati così forti.”
   Lo scricchiolio della ghiaia sotto i miei piedi era l’unico rumore che riuscivo a sentire: il fragore dei motori e lo stridio dei clacson, il vocio delle persone per le strade e urla dei bambini che giocavano. Niente di tutto questo faceva presa su di me. Eravamo solo io, il silenzio e lo splendido scrocchiare del pietrisco sotto le suole delle mie scarpe.
   Il sole colorava già l’aria e il cielo era di quell’azzurro intenso da far male agli occhi, puntinato solo qua e là da insignificanti scarabocchi di nuvole. C’era pace intorno a me. E io la sentivo, anche dentro.
   “Footing,” pensavo “potrei ricominciare a fare footing. Come quando andavo in palestra.”
   Tutta quella gente che correva per il parco, chi da solo, chi in coppia, chi in compagnia della musica. Era molto tempo che non trovavo più un piccolo spazio nella mia vita per ritagliarmi del tempo mio. E per “del tempo mio” non intendo del tempo per vedere gli amici, per dedicarsi ad un progetto con altri, ma da vivere veramente dedicandosi solo ad un po’ di sano amor proprio.
   “Dedico troppo del mio tempo agli altri” rimuginai con lo sguardo perso “credo sia arrivato il momento di prendere le distanze. Sono stufo di tutto. Sono stressato, non ce la faccio più.”
   Stavo ancora pensando a come trovare un po’ di tempo libero quando alzando lo sguardo la vidi: era una bambina minuta, tutta rannicchiata su una panchina. Stringeva le gambe al petto e teneva la testa abbassata, infossata tra le ginocchia. Ne rimasi come incantato fin da subito. Non so se fossero i capelli neri come la pece che cadevano spinti dal vento sul suo vestitino a fiori. Forse era l’immagine in sé di quella bimba seduta sola, nel parco, mentre tutti quanti le passavano intorno senza neanche notarla. Forse invece erano le sue scarpette di vernice rossa, lucide e impossibili da non notare.
   Mi bloccai come paralizzato in mezzo al sentiero. La guardavo immobile e non riuscivo a pensare. Il cervello era completamente atrofizzato. Ripercorsi con lo sguardo tutto la piccola figura e mi fermai ancora sulle sue scarpe.
   “Non mi piace, c’è qualcosa che non mi piace.”
   Mi mossi. Camminavo lentamente andandole incontro; la osservavo e non capivo il motivo per cui ne ero rapito e non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Era completamente estranea a quel mondo che le scorreva attorno come l’acqua che fluisce accanto al sasso del fiume. Era lì, sotto gli occhi di tutti i passanti, eppure nessuno sembrava accorgersi di lei. Le sue scarpette rosse ardevano come un fuoco in quel parco spento dai colori dell’inverno che ancora si rifiutava di passare. Non potevo fare a meno di guardarle, ne ero ossessionato.
   Mi avvicinai diffidente e provai a parlarle: «Ciao.»
   Nessuna reazione da parte sua, forse non aveva sentito o forse ero stato io a parlare troppo a bassa voce. Alzai lo sguardo per guardarmi in giro: eravamo nel centro del parco, ma notai che nessuno sembrava “vedere” il punto in cui eravamo. Io e quella bambina; lei seduta sulla panchina e io a due passi da lei, isolati nel bel mezzo del parco. La gente passava lungo il grande sentiero oltrepassandoci senza neanche vederci. Qualche passante lanciava uno sguardo nella nostra direzione ma sembrava quasi non accorgersi della nostra presenza, come se fissasse un punto imprecisato del parco dietro la panchina dove ci trovavamo. Eravamo come circondati da una bolla che riparava quel punto da occhi indiscreti.
   «Hey, fiorellina» riprovai a parlarle in un tono più alto di voce. Cercavo di scherzare. Ancora silenzio da parte sua. Decisi di avvicinarmi ancora di più.
   «Posso sedermi?» provai a domandarle. La sua reazione fu ancora nulla. Non sapevo se non mi sentiva o se voleva ignorarmi così decisi di prendere ulteriormente l’iniziativa. Mi sedetti accanto a lei sulla panchina e quel gesto doveva averla destata dalla sua incoscienza perché fu scossa da un lieve brivido che la fece rabbrividire da capo a piedi. Scrollò debolmente le spalle. Alzò la testa uscendo dal guscio delle sue ginocchia e guardò dritto davanti a sé.
   Aveva le gote incendiate, gli occhi rossi e gonfi di lacrime. Alcuni capelli le erano rimasti appiccicati alle guance. Era una bella bambina, come lo sanno essere tutti i bambini quando sono piccoli, ma le si leggeva in volto una tristezza profonda. Ero un po’ imbarazzato, i bambini non erano proprio la mia specialità, ma quel piccolo scricciolo mi incuriosiva in una maniera febbrile che non riuscivo a spiegarmi.
   «Ciao» dissi provando nuovamente a parlarle. Era banale ma di meglio non sapevo fare: cosa diavolo si dice ad un bambino che piange?
   Lei questa volta reagì e inclinò la testa guardandomi di sottecchi, con gli occhi leggermente socchiusi e indagatori. Vidi un’ultima lacrima rompere i già provati argini delle palpebre e scendere a solcarle la guancia arrossata per poi scomparire tra i capelli ancora impiastricciati sul viso. Poi si girò nuovamente a fissare il vuoto davanti a sé e tutto tornò come prima.
   “Ottimo, siamo punto e a capo” pensai “Sei proprio un genio con i bambini. Perché non le chiedi se vuole una caramella così finiamo questa sagra delle banalità? Magari potresti impersonare anche l’uomo in nero che esce dall’armadio così il quadretto di pateticità sarebbe completo”. Dovevo essere proprio patetico; probabilmente lo ero. Anzi, quasi certamente lo ero. Non mi è mai piaciuto parlare con la gente, figuriamoci con i bambini. E questa piccolina non voleva proprio collaborare, come se vivesse in un mondo tutto suo, completamente slegato da questo. Non sapevo cosa fare: le mie cartucce le avevo sparate tutte.
   «Salve» disse la piccola. Mi sconvolse perché non ero pronto a quella reazione da parte sua. Ero perso nei miei pensieri e quella risposta mi aveva colto impreparato. La guardai, il suo sguardo sempre fisso come marmo davanti a sé, gli occhi velati da quelle piccole lacrime innocenti. Cominciai a tormentarmi le mani giocando con le dita. Nervoso. E Teso, molto Teso.
   «Salve a te, piccola» riuscii a dire dopo che il silenzio si era fatto pesante come un peso incontenibile sopra i miei pensieri. Attesi qualche istante ma niente, sempre la stessa reazione da parte sua.
   Che diavolo ci facevo lì, stavo dando di matto? Io, proprio io ero seduto a parlare con una bambina nel parco? Io, proprio io che odio le conversazioni. Cosa…

   ~ Scarpette Rosse ~
   Un fulmine nei miei pensieri. Mi ritrovai nuovamente girato verso quella bambina, con gli occhi fissi su quelle maledette scarpe rosse. Erano fuoco nei miei pensieri, ne sentivo lo scoppiettio dell’incendio dentro la testa. Brillavano della luce riflessa dal sole, vivevano delle ombre delle persone che passavano. C’erano delle persone su quelle scarpe, forse le stesse che passavano lì in parte, senza accorgersi di niente. Scarpette rosse. Il loro nitido candore, la superficie lucida e torrida catturava tutto quel mondo.
   Deglutii violentemente e mi destai dal quel torpore. Avevo la bocca asciutta, le labbra secche come dune, la gola incendiata e la bocca spalancata come un’ebete. Da quanto tempo le fissavo inebetito? Il mio sguardo tornò su quella bimba, sul suo viso arrossato e triste.
   «Puoi dirmi ciao» mi sentii dire. Mi sentivo piuttosto rincretinito, come se tutto fosse diventato piccolo fuori di me, come guardando il mondo da un cannocchiale al contrario «Non serve il salve. Ciao va più che bene.»
   Finalmente lei si girò e mi guardò con due occhioni verdi come fari in mezzo alla notte. Strizzò un poco gli occhi mentre abbozzava un timido sorriso ai lati della bocca. Sorrideva, ma nei suoi occhi si leggeva molta tristezza: erano bloccati e spenti, senza luce.
   «Allora sai anche sorridere!» le dissi.
   «Non si ride se non c’è nessuna ragione per farlo» ribatté in un baleno lei «E non si parla proprio per lo stesso motivo.»
   Rimasi basito; sembrava aver ritrovato una parvenza di tranquillità. O meglio, di sicurezza «Ma non si può sempre piangere.»
   Il suo viso si appiattì e l’emozione sulla sua faccia scomparve. Tornò a conficcare lo sguardo perso e sconsolato nel parco, oltre le persone che continuavano a sfilare noncuranti. «Sorriso e pianto sono solo esternazioni sfuggenti dell’ego della mia anima. Durano un attimo.»
   “Cosa diavolo ha questa bambina che non va?” fu la sola cosa che riuscii a pensare. Come aveva detto? “esternazioni sfuggenti dell’ego della mia anima”? Cosa cacchio significava?
   Ero terribilmente curioso.
   «Come ti chiami?» le chiesi. Subito dopo però pensai che forse sarebbe stato più opportuno presentarmi io stesso «Io mi chiamo Sato.»
   Lei in tutta risposta rimase ferma, come se non avesse sentito nulla di quello che le avevo appena detto. Continuava a guardare davanti a sé, in quel vuoto parco pieno di persone. Poi sbuffò. La cosa mi sorprese, non sapevo come comportarmi con quella strana creatura. Si girò a guardarmi e ancora una volta mi inchiodò con i suoi piccoli occhi smeraldo. Questa volta lessi non più tristezza ma… forse… speranza?
   «Ciao» fece lei. Silenzio. La cosa mi sembrò talmente comica che dovetti trattenermi dallo scoppiare a ridere come un cretino. «Mi chiamo Miku.»
   «Ciao a te Miku.»
   «Vuoi giocare con me, signor Sato?» Sembrava tornata una bambina normale, come tutte le altre. Chissà cos’era stata quella sua uscita di prima sull’ego e sull’anima?
   «Certo piccola Miku-chan.»
   Si scostò i capelli appiccicati alla faccia e asciugò le lacrime col dorso della mano «Se noi due giochiamo poi diventiamo amici?» mi chiese lei. Era concentratissima, le sopracciglia inarcate, come se da quella risposta dipendesse tutto.
   «Se tu lo vuoi sì.»
   «Allora possiamo essere amici, Signor Sato?» un sorriso ampio le rese radioso il viso come un sole d’agosto. Gli occhi le brillavano raggianti. Aveva alzato la piccola manina verso di me e me la porgeva chiusa a pugno e con il piccolo e paffuto mignolino proteso. Non capii immediatamente cosa voleva. Lei agitò nell’aria la manina con quel mignolo alto come spazientita. Mi guardai le mani, le avevo tormentate fin troppo. Alzai la destra verso di lei e imitai quello che stava facendo chiudendola a pugno col solo mignolo alzato.
   «Pace, carote, patate!» disse lei intonando un piccolo motivetto che non conoscevo «Ora siamo amici, signor Sato.»
   «D’accordo Miku-chan» senza pensarci «Siamo amici ora.»
   «Saremo amici per sempre?»
   “Amici per sempre” pensai “Che parolone! Niente è per sempre. Nemmeno la cosa più eterna.”
   ~ Scarpette Rosse ~
   Era un pensiero fisso, mi impregnava i pensieri come neve ghiacciata.
   ~ Scarpette Rosse ~
   E subito un altro pensiero si inerpicò sopra gli altri: “Non so se saremo amici per sempre, piccola. Di sicuro mi ricorderò per sempre le tue scarpette rosse. Su questo ci puoi contare.”
   «Se è questo che vuoi» le dissi «Amici Per Sempre.»

   ~ Scarpette Rosse ~

[Dedicato a Valentina]