Don't tell me, show me

[Tecnica] Show don’t tell: un po’ di chiarezza

Molti autori di rilievo ribadiscono sempre come sia di vitale importanza applicare la tecnica sintetizzata nell’enunciato inglese: “Show, don’t tell”. Ma poi non spiegano cosa significhi realmente quella frase. Il suo vero significato si nasconde nella sua stessa esposizione, ovvero prendendola così come suona: non con la tipica e confusionaria traduzione “Mostra, non raccontare”, bensì nella sua migliore traduzione “Mostra, non dire”.

Premessa

In questo articolo cercheremo fare luce sulla tecnica più amata  e al contempo odiata dell’intera scrittura creativa: lo show don’t tell. Troppe domande non vengono mai spiegate, una su tutte: Cos’è la tecnica dello show don’t tell?

Capirne tutta la storia, l’evoluzione,  l’applicazione moderna e fare propria questa tecnica è un percorso che richiede studio e pazienza. E non può essere certo liquidato in quattro paragrafi. Quello che segue sarà quindi un percorso in più lezioni e in questo primo articolo vedremo l’evoluzione storica della letteratura seguendo il filo rosso dell’attenzione verso il lettore. Materia sottovalutata, ma che grazie ai grandi Autori del passato ha permesso di sviluppare la narrativa così come la conosciamo oggi.

«The art of fiction does not begin until the novelist thinks of his story as a matter to be shown, to be exhibited that it will tell itself.»

The Craft of Fiction – Percy Lubbock

La tecnica e il mantra

Ma tra gli autori, soprattutto tra gli esordienti, c’è diffidenza e soprattutto confusione creata dall’assenza di un enunciato unico e inequivocabile della tecnica. Non esiste infatti una formula matematica definitiva, un teorema da imparare a memoria. Oltretutto la molteplicità di Referenti associati alla semantica delle parole “Dire” e “Raccontare” è talmente ampia da assumere qualsiasi significato e quindi, per definizione, nessuno in particolare.

Don't tell me, show me
Don’t tell me, show me

Un passo indietro

Come abbiamo potuto apprendere in un articolo precedente riguardo le differenze tra Storia, racconto e narrazione si dice Racconto quella parte della comunicazione che riporta con fedeltà assoluta e imparziale gli avvenimenti della Storia così per come avvengono. Al contrario la Narrazione (l’azione appunto del raccontare) è quella parte che espone gli avvenimenti attraverso il filtro narrativo di una posizione chiamata appunto Narratore scegliendo un Punto di Vista.

Vi sento pieni di dubbi e rimuginanti nella vostra aria perplessa. Vedo le vostre fronti aggrottarsi e il prurito alla nuca insinuarsi nei crani ricolmi di idee. Non si era detto che non bisognava raccontare ma mostrare? E quindi il mostrare dov’è? E soprattutto cos’è? Ecco qui il dilemma vero. Dovete dimenticarvi il verbo raccontare per come lo conoscete o credevate di conoscere finora e prendere le prossime parole come un mantra assoluto:

«Scrivere narrativa significa proporre una Storia, riferendo i fatti così come avvengono (show) e aggiungendo un filtro narrativo (tell).»

Se volete seguirmi e fare un viaggetto nella Storia della letteratura per capire appieno di cosa stiamo parlando continuate pure di seguito.

Storia della narrazione mostrata

Il nostro viaggio parte dall’antica Grecia che, oltre a essere stata patria di grandi filosofi e poeti, è stata portatrice dei testi narrativi che oggi conosciamo col nome di romanzi. Ai greci non piaceva dare un nome a queste composizioni di poco conto, considerate letteratura così bassa da non essere neanche equiparabile alla narrativa d’intrattenimento. Eppure il romanzo come narrativa d’evasione al solo scopo di intrattenere e dilettare il lettore è di moda tanto oggi quanto lo era nella Grecia antica.

Grecia, la terra di origine delle cultura moderna occidentale
Grecia, la terra di origine delle cultura moderna occidentale

Maestri nell’arte della prosa e della poetica in versi, i greci già avevano intuito quali fossero le basi per catturare l’attenzione del lettore. Coniarono così una serie di tecniche e osservazioni che sono alla base dell’esposizione narrativa in ogni sua forma. In medias res, Analessi, Prolessi e tutto lo studio della retorica nata nell’italianissima Siracusa e sbocciata nella regione dell’Attica: tutte forme d’arte di attirare l’attenzione e del persuadere un pubblico applicate al testo scritto.

Indagini sulle parole e sulle emozioni

Nella metà del ‘700 Chikamatsu Monzaemon in Giappone e George Campbell in Europa cominciarono a formulare concetti più elaborati riguardo le forme espositive. Il preludio della formulazione della tecnica dello show don’t tell.

Il drammaturgo nipponico afferma che la tecnica e il lessico della tradizione poetica e narrativa debbano divenire strumenti per la ricerca del sentire. Bisogna mettere al centro dell’opera il sentimento, sbarazzandosi degli appesantimenti per dare spazio al ritmo e alla recitazione. La sua teoria estetica emerge in una massima esposta attraverso un concetto teatrale riportato come dialogo avuto con il confuciano Ikan nel suo saggio”Ricordi di Naniwa” (nda: Osaka):

«Ciò che si chiama arte risiede nella sottile membrana tra finzione e realtà.»

— Naniwa miyage – Hozumi Ikan
Ritratto di Chikamatsu Monzaemon
Ritratto di Chikamatsu Monzaemon

Equilibrio

L’arte dev’essere vicina al reale con una sua rappresentazione minuziosa e al contempo essere consolazione dell’animo umano per poter suscitare piacere. L’equilibro sta sempre nel mezzo e infatti la ricerca a cui ci porta Monzaemon si sofferma in quella sottile linea di confine che evita i pericoli più comuni della scrittura; tra eccessiva aderenza al reale senza consapevolezza dell’invenzione estetica (show) e desiderio di provocare commozione solo attraverso l’utilizzo di parole volutamente patetiche (tell). Non trovate curioso il fatto che patetico, dal greco pathētikós e derivato di páthos (sofferenza, ovvero qualcosa che suscita commozione), sia usato in termine dispregiativo, al pari di stucchevole?

«Io considero il pathos una questione di disciplina. Si crea pathos commovente quando tutte le parti sono controllate da una disciplina; più nette e precise sono parole e melodia, più si creerà un’impressione di malinconia. Per questa ragione, quando qualcuno dice che qualcosa di triste è triste, si perdono le implicazioni e alla fine anche l’impressione di tristezza è minima. È essenziale che non si dica che qualcosa “è triste”, ma che la cosa sia triste in sé.»

Chikamatsu Monzaemon

Soffermiamoci un secondo su quest’ultima affermazione che cala come una mannaia su qualsiasi opinione: non bisogna dire che qualcosa è triste ma sono i fatti che devono essere considerati tristi. Il senso che Mozaemon vuole trasmetterci è che non dobbiamo dare noi come autori un giudizio su ciò che avviene nella storia, ma essa stessa deve parlare per noi.

ESEMPIO:

Duilio è solo e triste. Trascorre tutto il suo tempo nel buio della sua camera in compagnia della depressione.

Tutto in questo pezzo è un giudizio opinabile che non fornisce nessuna emozione. Non vi sentirete certo tristi, soli o depressi dopo averlo letto. E perfino immaginare la stanza è stato difficile. Questo perché buio è un giudizio vago, un aggettivo che significa tutto e nulla. Non trasmette nessun sentimento agli occhi del lettore.

George Campbell

In Inghilterra invece l’abate Campbell, teologo, filosofo e profondo studioso della retorica, aggiusta ulteriormente il tiro facendosi precursore degli studi delle parole nella narrazione e del loro effetto su chi le recepisce.

George Campbell
George Campbell

«Niente può contribuire maggiormente a ravvivare l’espressione, quanto l’impiego costante di parole accurate e specifiche nel loro significato […]. Più i termini sono generici, più l’immagine è debole; più i termini sono specifici, più l’immagine è vivida. Gli stessi sentimenti possono essere espressi con uguale giustezza, e persino limpidezza, nel primo modo come nel secondo; ma dato che le tinte saranno più fiacche (nda nel primo caso, usando termini generici), non produrrà lo stesso piacere, e di conseguenza non contribuirà così tanto a mantenere l’attenzione o a lasciare un’impressione duratura nella memoria.»

— The Philosophy of Rhetoric – George Campbell

Campbell non sta raccontando altro che un piccolo pezzetto che compone la tecnica: evita l’astratto in favore del concreto.

ESEMPIO:

Duilio slega le corde e le riporta sulla banchina lasciando barca a ciondolare cullata dalle onde. L’imbarcazione si stacca dal molo e prende il largo.

Questo pezzo, pur essendo visuale è frivolo e vago. Usare termini specifici ci aiuta anzitutto a capire meglio la situazione e poi l’ambientazione. Parole come corde e barca sono elementi che non ci aiutano a identificare la situazione: Stiamo cercando di disormeggiare le trappe di prua di un Loabster per andare a pesca? O semplicemente slegando le cime di un gommone? È un cruiser a vela o uno yacht a due piani? Non ci è dato sapere.

Dalla psicologia dell’arte al cognitivismo

Non credo serva aggiungere altro a queste conclusioni così inattaccabili: la comunicazione delle emozioni non deve dare spazio al giudizio, bensì esporre i fatti e lasciare il giudizio al lettore; parole precise e concrete forniscono immagini mentali più chiare, attirano l’attenzione e rimangono impresse.

L’affermazione del pastore non ha avuto impatto sul solo ruolo della retorica sia nella forma orale sia in quella scritta, ma ha avuto ripercussioni su tutti gli studi a base comunicativa sviluppati negli anni a seguire ed esplosi nel ‘900.

In questo periodo a cavallo tra la fine del ‘700 e l’inizio del secolo successivo si sviluppano anche gli studi di Franz Mesmer sul magnetismo animale che uniscono due terreni in eterno contrasto: da una parte la filosofia, da sempre vista come arte, dall’altra l’aspetto medico e quindi prettamente scientifico. Sono anni di fermento in cui gli studiosi sguazzano in un oceano di idee. Viene scoperto l’inconscio, nasce la psicologia dinamica e si dà vita al primo incontro collaborativo tra Arte e Scienza che sfocerà in una durevole e prolifica collaborazione sotto l’ala protettiva della Psicologia dell’Arte.  L’obiettivo della psicologia dell’arte è infatti quello di determinare quali sono i processi mentali che caratterizzino il godimento,  e i sentimenti di un’opera.

La filosofia dello stile

A metà dell’ottocento l’effetto del linguaggio figurativo spiegato da Herbert Spencer nel suo saggio “The philosophy of style” (1852) approfondisce ancora lo stesso concetto introducendo un’analisi che porterà al cognitivismo, ovvero allo studio dei processi mentali che ci permettono di raccogliere le informazioni esterne ed elaborarle, fornendoci la percezione che abbiamo del mondo esterno.

La superiorità delle espressioni specifiche è chiaramente dovuta al risparmio dello sforzo richiesto per tradurre le parole in pensieri. Dato che non pensiamo per generalizzazione, ma attraverso particolari – come ogni volta che ci riferiamo a una ‘classe’ di cose, noi la rappresentiamo a noi stessi richiamando alla mente i singoli componenti di essa; ne consegue che quando viene usata una parola astratta, l’ascoltatore o il lettore deve scegliere tra la sua scorta di immagini, una o più, con cui egli possa figurarsi il genere menzionato. In tal modo, deve sorgere un certo ritardo, devono essere impiegate delle risorse; e se, impiegando un termine specifico, si può suggerire immediatamente un’immagine appropriata, si ottiene un’economia e si produce un’impressione più vivida.

— The philosophy of style – Herbert Spencer

Immagini mentali

Come dice Spencer tutti i concetti che ci vengono trasmessi devono essere elaborati e immaginati nella nostra mente. Per eseguire questa traduzione dalla parola alle immagini mentali che visualizzino in modo concreto l’argomento di cui stiamo ricevendo l’informazione, il nostro cervello deve cercare nella memoria qualcosa che conosciamo o riusciamo a immaginare e ci fornisca un’idea chiara della cosa. In questo passaggio il Nobel per la letteratura si sta proprio riferendo alla tecnica dello show don’t tell.

Ne consegue che utilizzare termini vaghi o con troppi significati richiama alla mente concetti troppo ampi per poter essere chiari a chi ci ascolta, mentre se utilizziamo parole specifiche, in grado cioè di richiamare immagini precise e particolareggiate, le immagini mentali di chi ci ascolta saranno vivide, definite.

Herbert Spencer - The Philosophy of Style
Herbert Spencer – The Philosophy of Style

Mostrare in linearità

Il filosofo prosegue poi analizzando anche l’ordine delle parole nelle proposizioni e l’ordine delle frasi  nella narrazione per esporre i concetti. Giunge così alla conclusione che anche la sequenza delle parole dovrebbe esprimere la stessa linearità e naturalezza con cui gli elementi che vogliamo trasmettere devono essere recepiti. Il tutto senza costringere chi ci ascolta a dover andare avanti o indietro nell’esposizione alla ricerca del significato. Ogni singolo concetto atomico che vogliamo trasmettere deve spiegarsi da sé, senza aspettare quelli successivi: parole precise, frasi semplici e autoesplicative.

Questo impiego costante di una specifica di fraseologia che dovrebbe arrovellare tutti, implica una facoltà di linguaggio non sviluppata. Per avere uno stile specifico bisogna essere poveri di parole.
Lascia che i poteri della parola siano pienamente sviluppati, lascia che la capacità dell’intelletto di pronunciare le emozioni sia completa; e questa fissità di stile scomparirà. Lo scrittore perfetto […] ora sarà ritmico e ora irregolare; qui la sua lingua sarà chiara e decorata; a volte le sue frasi saranno equilibrate e altre volte non simmetriche; per un po’ ci sarà un’identità considerevole, e poi di nuovo una grande varietà. […] E mentre il suo lavoro presenta al lettore che la varietà è necessaria per prevenire lo sforzo continuo delle stesse facoltà, risponderà anche alla descrizione di tutti i prodotti altamente organizzati, sia dell’uomo che della natura: sarà, non una serie di simili parti semplicemente poste in giustapposizione, ma un intero composto da parti diverse che sono reciprocamente dipendenti.

— The philosophy of style – Herbert Spencer

Povertà di parole

Qui entra in gioco il concetto di stile e ritmo: non si può essere sempre minuziosi e particolareggiati; bisogna usare il minor numero di parole per esprimersi e nel contempo creare il proprio stile in armonia con ciò che i personaggi vogliono trasmettere. Una buona narrazione è una delicata sinfonia che alterna alti e bassi, sempre e comunque chiari per ci ci ascolta, in relazione a ciò che vogliamo comunicare.

Cerca nell’intero dominio della letteratura e scoprirai invariabilmente che gli autori sono popolari in proporzione al loro potere di particolarizzazione. I personaggi che delineano sono tracciati con una tale discriminazione che non si possono confondere l’uno con l’altro; le scene che descrivono sono disegnate a matita fin nei particolari; i dettagli inseriti sono tutti singoli avvenimenti raggruppati insieme dalla mano di un maestro. È una felice selezione di singole scene ed episodi – il potere di usare parole felici per esprimere cose particolari – che innalza un piccolo libro a un drappo di lino, gentile e geniale.

Se il novizio letterario evitasse la vaghezza e l’indefinitezza così prevalenti nella letteratura del giorno d’oggi, potrebbe coltivare uno spirito di stretta osservazione degli uomini e delle cose, e studiare per ottenere precise opinioni sugli argomenti con cui si occupa[…]; in altre parole, che non sia più occupato a pensare a ciò che deve fare rispetto al farlo, quello che Goethe chiama “pensare al pensiero”, una pratica calcolata per assorbire le sue migliori energie senza uno scopo.

— The philosophy of style – Herbert Spencer

Mostramelo!

Arriviamo al dunque, perché giunti a questo punto fu Anton Pavlovič Čechov, immenso drammaturgo russo di fine ottocento, che ebbe il coraggio di alzare la voce sull’argomento e battere i pugni sul tavolo.

“Non dirmi che la luna splende, mostrami il riflesso della sua luce nel vetro infranto”

— Anton Chekhov

Ecco che abbiamo la prima dichiarazione d’intenti formale da cui prende il nome la tecnica: Don’t tell me the moon is shining; show me the glint of light on broken glass. Ovvero “Don’t tell me, show me”, abbreviato nella formula Show, don’t tell diventata poi emblema della tecnica.

La narrazione moderna

Per questo e molti altri aspetti, alcuni considerano Cechov il fondatore della narrazione moderno e la sua influenza è stata riscontrata in un elevato numero di scrittori a seguire. Elevato ad autore esemplare nel genere del realismo, Chekhov sperimenta la forza della realtà rispetto al giudizio intangibile. Sono i suoi personaggi a definire i giudizi del lettore, la storia a far sbocciare le emozioni.

Le persone dovrebbero essere belle sotto ogni aspetto, nei loro volti, nel modo in cui si vestono, nei loro pensieri e nel loro intimo sé.

— Anton Chekhov
Anton Pavlovič Čechov, l'autore che ha ridisegnato i confini della letteratura
Anton Pavlovič Čechov, l’autore che ha ridisegnato i confini della letteratura

Il perno attorno al quale ruota tutta quanta la forza della sua narrazione è il ruolo che l’autore russo ritaglia per lo scrittore. Un artista deve assumere un atteggiamento intelligente nei confronti del suo lavoro nel senso che non deve giudicare. Il fine ultimo di un autore è quello di trovare ed esporre i problemi lasciando le risposte ad altri; che siano i lettori a esprimere un giudizio.

È compito del giudice (nda L’autore) porre le domande giuste, ma le risposte devono essere date dalla giuria (nda Il lettore) secondo le proprie luci.

Lettere a Aleksej Sergeevič Suvorin, Mosca 27 ottobre 1888 – Anton Chekhov

Chekhov indica la strada giusta da seguire: Il compito di uno scrittore non è quello di risolvere il problema, ma di indicare correttamente il problema. Tutto il resto è in mano al lettore.

Il correlativo oggettivo

Thomas Eliot, a cavallo tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 cercò di trovare la precisa correlazione tra espressività ed emozioni. La sua tecnica e le sue linee guida  faranno da solidi binari per rafforzare la posizione di forza dello show don’t tell.

In questo saggio Eliot analizza la comunicazione prendendo come riferimento il più grande drammaturgo occidentale di tutti i tempi: William Shakespeare. Sull’onda dei sui predecessori, il nobel per la letteratura collega la forza delle immagini alle sensazioni che si vogliono scatenare nel lettore.

“L’unico modo per esprimere un’emozione in forma d’arte consiste nel trovare un correlativo oggettivo; in altre parole, una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che costituiscano la formula di quella particolare emozione. In questo modo, quando vengono presentati dei fatti esterni che dovrebbero provocare esperienze sensoriali, l’emozione viene immediatamente evocata. Se esaminate una qualsiasi delle tragedie di maggior successo di Shakespeare, troverete questa esatta equivalenza; scoprirete che lo stato d’animo di Lady Macbeth che cammina nel suo sonno viene comunicato da un sapiente accumulo di impressioni sensoriali tradotte in immagini; le parole di Macbeth nel sentire della morte della moglie ci colpiscono come se, data la sequenza degli eventi, queste parole fossero l’automatica conseguenza della serie di eventi. L’ “inevitabilità” artistica sta in questa completa corrispondenza tra i fatti esternati  e le emozione;”

Il bosco sacro – Thomas Stearns Eliot
Thomas Stearns Eliot
Thomas Stearns Eliot

Nel prossimo articolo…

Le parole dei più grandi letterati mondiali ci hanno guidato attraverso questo lungo percorso all’interno della storia della narrativa. Così abbiamo potuto osservare con quanto studio, con quanta passione queste grandi menti abbiano potuto sfornare dei capolavori memorabili. Nel secondo articolo vedremo lo studio della comunicazione e come può essere utile per capire appieno la tecnica dello Show don’t tell.