L’ultima stella blu [Racconto]


“Ogni cosa che è stata, è e sarà – l’intero Universo, è stato costruito secondo il principio di “causa ed effetto.” Non c’è né inizio né fine. C’è solo causa ed effetto.”

– Kabbalista Yehuda Ashlag,

“Prefazione alla Saggezza della Kabbalah”

 

M 31: Andromeda

Sento freddo. Quel freddo che pervade le ossa quando le sicurezze urtano contro gli scogli della vita e si inabissano sotto fondali tetri, forieri di un destino già segnato e marcio. Certezze non ne ho più, le ho perse tutte; non so dire chi io sia, cosa io sia, né tantomeno chi io sia stato o chi sarò.
   Una delle poche cose che so per certe, e su cui posso puntare tutte le fiches della mia vita a colpo sicuro, è l’unica cosa che mi rimane: me stesso, solo un nome di questi tempi, Leone Rampanti. Sono ai margini del passaggio pedonale che porta alla metropolitana, fermata Boccaccio. E osservo.
   Sono qui, seduto-in-piedi, un poco scomodo sul bordo di questo basso muretto anonimo. Sono circondato dai miei amici, quelli che io chiamo amici: gli sguardi dei passanti.
   Non mi è rimasto nessun altro in vita. Sono quello che io stesso definisco orfano della vita, perché non ho nessuno da poter chiamare in un qualunque modo: orfano di parenti, orfano degli amici, orfano di conoscenti. Alcuni se ne sono semplicemente andati, hanno preso le loro cose e sono scappati in altre città, altre realtà. Altri sono semplicemente diventati evanescenti all’interno della mia vita. Esistono ancora in questa città, hanno una loro vita, una casa, un lavoro, degli amici con cui andare a bere nei fine settimana e magari anche una moglie su cui sfogare le proprie frustrazioni; semplicemente la loro vita non interseca più con la mia. Alcuni sono passati all’altra esistenza, dall’altra parte del fiume dei ricordi, con grande sollievo mio e loro. Hanno lasciato alle persone che conoscevano in vita il sapore amaro della perdita. A me per fortuna, o forse a qualcuno piacerebbe ridefinire “per sfiga”, non è toccata la stessa loro sorte: perdere la propria felicità; angosciarsi per la morte di un caro; o essere felici della propria.
   La vita mi ha fatto dono di un mantello speciale, come quelli che i vecchi signorotti dei secoli trascorsi usavano indossare nelle uscite serali degli inverni più rigidi per proteggersi dal freddo che accompagna la sera. Mi difende dall’esterno, riparato dal gelo che circonda le persone nei loro falsi animi strumentalisti, colmi di uno straripante egoismo degno del più nobile taccagno che abita questo pianeta.
   Io qui, seduto-in-piedi, un poco scomodo sul bordo di questo sporco muretto anonimo, sono circondato dai miei veri amici. Lo sguardo vero delle persone che passano e mi guardano, o non mi guardano. Nascondono tutta la loro vita in quello sguardo, fanno finta che le cose scomode non esistano, celano sotto mille maschere quello che non vogliono mostrare. Un solo sguardo mi rivela sempre la natura nascosta di tutti.

Via Lattea

Sento freddo, non quel freddo gelido dell’inverno appena trascorso. Quello che è stato un gran brutto colpo per noi senzatetto.
   Ho visto Spettro qualche giorno fa; se ne andava in giro come sempre spingendo il suo vecchio carrello della spesa. Non ho mai capito cosa ci fosse dentro quella sua gabbia con le rotelle, piena di cartoni e sacchetti, ma è come se fosse casa sua. Se lo porta in giro ovunque va; penso sia il suo carico di ricordi che non vuole perdere e dimenticare.
   L’altro giorno gironzolavo nei pressi della galleria grande e lui era lì che camminava scomposto, spingendosi e aggrappandosi al tempo stesso al suo vagone dei ricordi. Ha alzato gli occhi e mi ha visto. Col suo passo zoppo e stanco mi è venuto in contro.
   Una volta arrivato vicino mi ha domandato «Lo hai già saputo, Leone?» La sua voce era rauca come sempre, sporcata da quel ruvido meccanismo che è la dipendenza dall’alcol. Non avevo capito a cosa si riferisse, ma avevo colto una smorfia di dolore nei sui occhi, una piccola contrazione involontaria delle sopracciglia, le rughe sulla fronte come piccole dune di un deserto, quegli occhi grigi e cupi.
   Tutti lo chiamano Spettro perché appare quando meno te lo aspetti. Vagabonda sempre nei vicoli spingendo il suo trabiccolo con le ruote sgangherate. Lo senti sempre arrivare, preceduto dal rumore inquietante del suo carrello con le ruote gemono ad ogni spinta. Gni-gnic Gni-gnic Gni-gnic.
   «Cos’è che dovrei sapere?» gli avevo chiesto a mia volta. Mi era sembrato lucido, forse più del solito, ma qualcosa in lui non andava. «Stai parlando di cose serie o è l’alcol che parla per te?» Volevo esserne sicuro, anche se sapevo che non mi avrebbe mai detto la verità. La bugia è parte di lui, le palle gli vengono talmente naturali che probabilmente neanche lui ormai ci fa più caso.
   «Bagià d’un Leùn!» aveva sbottato «Non prendermi per i fondelli» aveva agitato un indice d’accusa verso di me «Sono…» una breve pausa per un attacco di tosse «Sono ancora abbastanza lucido per capire che lo stai facendo e non mi piace.»
   Aveva barcollato accanto al suo carrello, rischiando quasi di rovinare a terra ed era rimasto in silenzio per un momento; aveva guardato in basso, forse per osservarsi le scarpe, più probabilmente perché non connetteva molto. Io lo avevo squadrato dalla testa ai piedi e avevo capito cosa poteva provare la gente in sua presenza: i suoi capelli sozzi e arruffati, le sue mani luride, nere e callose che sbucavano dalle maniche altrettanto sudice del lungo soprabito che portava.
   Alla fine era riuscito a farfugliare qualcosa: «Pezzo di pane se n’è andato.»
  Ero rimasto turbato da quelle parole. Non ne avevo afferrato il senso, ma quando avevo fatto associazione d’idee tra le sue parole e i miei ricordi qualcosa dentro di me si era infranto.
   «Pezzo di pane se n’è andato?» avevo ripetuto. Ero imbambolato, come dopo aver ricevuto una bastonata direttamente sui denti. Sentivo le braccia e le gambe molli. Deglutivo a vuoto.
   «Sì hai capito bene Leone, non farmi ripetere due volte. Pezzo di pane se n’è andato. Pluf, sparito. Ieri c’era e oggi non c’è più. Sono passato sotto i portici dove si fermava a fare la sua solita lagna.» a Spettro non era mai andato giù il fatto che Pezzo di pane si esibisse nella sua speciale scenetta della carità. “Un pezzo di pane” chiedeva ai passanti “Un pezzo di pane, una monetina”. Spettro aveva continuato ad osservarsi le scarpe.
   «C’era un’ambulanza» aveva continuato a raccontare. Si era fermato, mi aveva guardato dritto negli occhi. Mi aveva esaminato fin nel profondo con quegl’occhi che non avevo mai visto così lucidi, così seri.
   «Assideramento ha detto quello dell’ambulanza quando gli ho chiesto. Assideramento Leone, capisci? La morte di un uomo descritta da una parola così… brutta. Fredda
   Fredda, avevo pensato, ovvio che sia fredda: assideramento vuol dire proprio quello stupido di un accattone! Ma avevo tenuto la bocca chiusa, non mi era sembrato il caso di sottolineare certe cose in un momento simile.
   «Pezzo di pane era uno stupido,» avevo replicato. Mi era uscito naturale, espirandolo come aria dai polmoni «stupido e orgoglioso. Teneva più all’onore che alla sua vita.»
   «Stronzate.»
   «Be’ Spettro, stronzate o no, tutti prima o poi dobbiamo andarcene. Gli avevo chiesto più di una volta di venire con me al Dormitorio della Santa Carità. E lo sai cosa mi ha risposto ogni volta?» avevo aspettato una sua reazione alla mia domanda retorica, ma lui se n’era stato lì immobile a fissarmi «”Io non ho bisogno di quelle cose” mi ha detto “nessuno dovrebbe averne bisogno”.»
   «Sei troppo diverso, forse troppo stupido. Tu lo fai perché hai perso tutto, non riuscirai mai a capire il vero spirito del clochard. Sei solo uno che chiede l’elemosina, un vagabondo qualsiasi. Non pretendo che tu capisca. Neanche Pezzo di pane lo pretendeva.»
   Aveva abbassato lo sguardo e mi aveva superato spingendo il suo carrello. Mi ero girato a guardarlo mentre si allontanava.
   «Forse è vero, forse non capisco.» gli avevo urlato prima che girasse l’angolo «Forse è solo perché ho ancora una speranza.»

M 33: Triangolo

Sento freddo, come se dentro di me qualcosa si stesse spegnendo. È un freddo che ho dentro, nel profondo. La primavera si sta facendo avanti e le giornate cominciano a portare un poco di sole che scalda. Il problema è un altro.
   Ho detto a Spettro che ho ancora una speranza. La stessa speranza che avevo e che rivedevo negli occhi dei miei alunni, quando ancora la vita scorreva normale e diafana. Avevo un lavoro, una famiglia, degli amici: tutta una vita. Avevo sogni e ambizioni.
   Forse non riuscivo a fermarmi come adesso ad apprezzare le piccola cose della vita. Piccoli attimi di gioia nella vita di tutti i giorni, cose alle quali non pensi mai mentre sei tutto preso dallo scorrere frenetico delle giornate. La bellezza di un cielo bianco di neve che ti lascia senza fiato; l’erba che prospera dopo l’inverno, così morbida e verde da farti sentire vivo nella natura; i fiori che sbocciano e colorano i giardini, il volo dei piccoli uccelli che volteggiano liberi ridandoti quel senso di libertà e appagamento che a volte si sopisce e va in letargo; il dolce sorriso di un bambino piccolo che non può lasciarti impassibile. Ecco, i bambini: loro sì che sanno come stupirsi di fronte alle cose semplici.
   Dentro di me so che quella poca fiducia che mi è rimasta si sta erodendo. Seduto ai margini di questo passaggio della metropolitana è come se fossi ai margini della società. Vedo le facce passare, leggo nei loro occhi quello che provano. Non chiedo niente, non li disturbo. Lascio solo che gli occhi parlino al posto loro, di problemi, di pensieri, delle ansie, delle gioie. Ogni giorno studio migliaia di sguardi; sono tutti diversi; sono tutti uguali.
   L’uomo elegante che passa spedito e con gli occhi spenti, che parlano solo di lavoro, e impegni, e possibilità, e profitti. Il ragazzo solo che trascina i piedi, calato nella musica delle sue cuffie, con gli occhi assonnati e un po’ socchiusi, che parlano del mondo che gli crolla addosso, e della sua solitudine, e della sua angoscia. Lo studente col suo zaino carico di dubbi e desideri, con gli occhi pensosi, che parlano delle sue controversie, e delle sue insicurezze, e delle sue utopie. Il gruppo di adolescenti che sfilano scherzose, eccitate e disinvolte nei loro discorsi cinguettanti, coi loro occhi vispi, che parlano di spensieratezza, e di delizia per le più piccole cose, e di quanto vorrebbero essere già adulte, e di quanto vorrebbero tornare bambine. La coppia di anziani signori che passeggiano lenti e inseparabili, con occhi affaticati, che parlano di tutta una vita passata , e della sofferenza dentro alla felicità, e della felicità dentro la sofferenza.
   Mi si avvicina un bambinetto, avrà cinque o sei anni e ha i capelli tutti spettinati. «Ciao signore» mi dice e mi guarda come se non avesse mai visto una persona in vita sua.
   «Ciao piccolo» lo saluto.   Non dice altro, ma continua a guardarmi con due grandi occhi nocciola che mi parlano. Non è spaventato è solo curioso. Vuole fermarsi a vedere l’uomo ai margini della strada. Sorride, è vero, ma sono i suoi occhi a sorridere più di lui, spalancati e luminosi nel loro bianco perfetto, non ancora segnato dalle minuzie della vita.
   Mi guardo un poco attorno, ma non vedo nessuna possibile mamma. Così cerco di intrattenerlo, non voglio che si allontani da solo in tutto quel caos di persone che passano. Un bambino ci mette poco a perdersi in mezzo a tutti quegli adulti.
   «Come ti chiami piccolo?»
   «Attilio» mi risponde deciso alzandosi sulla punta delle scarpe, a sottolineare che sa rispondere bene a quella domanda, è preparato. Quando sei piccolo quell’interrogativo ti perseguita, è un rito d’obbligo quando t’incontri con un adulto: “Oh, ma che bello questo bimbo. Come ti chiami?” e giù con una serie di pizzicotti alle guance, di scompigliate ai capelli, di complimenti con una voce da rincretinito e con la faccia che si attorciglia in smorfie ancora peggiori della voce. Se solo riuscissero a sillabare più di due parole in croce credo che i bambini avrebbero molte cose da raccontare a questi grandi che si comportano da idioti.
   «Un bel nome Attilio. Come il grande Attilio Regolo: console e comandante dell’esercito  romano durante le guerre puniche. Un grande uomo quel Attilio, di quelli con dei principi come non ne trovi più al giorno d’oggi.» Un altro sguardo rapido attorno; della mamma neanche l’ombra «Io sono Leone.»
   Ride di gusto «Tu non sei un leone!»
   «È vero, non sono un leone. Ma mi chiamano così. Sei qui con la tua mamma Attilio?»
   Fa segno di sì. Forse è stanco perché si tiene il lobo dell’orecchio con la piccola manina alzata. Il suo sguardo profondo però mi cattura e mi placa quel freddo intenso che ho dentro. Continua a dondolarsi avanti e indietro sulle suole, senza mai staccarmi gli occhi di dosso.
   «E dov’è ora la tua mamma?»
   Una voce acuta si fa spazio tra la schiera «Attilio!» una testa incastonata tra grossi riccioli, tanto biondi e perfetti da sembrare finti, fa capolino tra la folla «Attilio!»
   «Guarda Attilio,» lo chiamo «la tua mamma ti cerca.»
   La signora Ricciolo D’oro si fa largo tra la folla e piomba sul bambino riempiendolo di parole e rimproveri che tutto sommato sono una ramanzina poco convinta, tanto che il bimbo non sembra neanche accorgersene. Riccioli D’oro mi inchioda al muro con un’occhiataccia rapace, prende suo figlio in braccio e si allontana senza una parola. Da sopra la sua spalla il piccolo Attilio abbozza un saluto.
   «Ciao signor Leone.»
   Forse, penso forse c’è ancora speranza per questo mondo malato.