La morte di Calipso [RACCONTO]


 

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Graffiate dal caldo bruciante che le incideva come artigli, le sue labbra erano solcate da profondi squarci. Erano raggrinzite come la terra arida di un deserto torrido quando si secca al sole frastagliandosi in tante piccole forme geometriche. Bianca smorta, la pelle le tirava il viso contraendo la muscolatura sottocutanea in una maschera di magrezza. Gli occhi erano rivoltati con le pupille al limitare delle palpebre; fissava un punto oltre il cielo, con lo sguardo immobile e perso, senza reazione. Il respiro affannoso gracchiava ad ogni spasmo dei polmoni. La faringe contratta nello sforzo, la glottide che sbatteva e schioccava con un rumore sordo e debole. La bocca spalancata e al tempo stesso raggrinzata in una smorfia di dolore. Quelle labbra bianche e stanche, arricciate per lo sforzo. Il suo corpo sussultava in continui rantoli; le mani contratte in un pugno a stringere manciate di foglie secche, come nel tentativo di raggiungerle nel loro amaro destino di morte; i bordi di stoffa pendenti dai lati del copricapo che vibravano e si scuotevano in uno stanco andirivieni accompagnando il respiro affannoso.
   Guardai Calipso sdraiata su quel tappeto morbido di foglie morte. La scrutai dall’alto e con rimprovero, come si guardano i cani, ma la studiai con diligenza, cogliendo tutti i particolari di quell’atto di morte. Non potevo fare a meno di staccarle gli occhi di dosso, proprio non riuscivo a guardare altrove. Sapevo che tutto era fermo e silenzioso intorno a noi: gli alberi tendevano sereni i loro rami nel cielo, imperturbabili al vento che si era calmato; il sole illuminava quella parte di mondo
   ~ bosco-giardino-città
Ma in realtà non c’era nessun sole, nessun cielo, nessun albero.
C’era solo Calipso; Calipso che viveva, Calipso che tremava; Calipso che moriva.
   Le gambe le si agitavano di tanto in tanto scuotendo le foglie rossicce che ricoprivano l’erba. I sospiri si facevano sempre più esasperati in quel lento declino di agonia.
   Non riuscivo più a guardarla, lì, lunga distesa nel suo letto di morte. Eppure il mio sguardo si soffermava ancora e ancora, come se una forza superiore mi trattenesse. Come se tutto il resto non contasse e l’unica cosa importante fosse quell’istante, quella scena.
   La nebbia salì lenta dal terreno, dolce e gradita, attesa come lo era sempre in quegli istanti di delirio. Salì bianca a coprire ogni cosa e a togliermi il fastidio
   ~ piacere
di quella scena rivoltante.
   ~ attraente

   Avvolta da quel pallido strato di cotone mi guardai le mani e vidi quello che più mi spaventava. Non erano mie quelle mani che vedevo: erano piene di rughe, con una serie di grossi anelli spocchiosi raffiguranti animali e simboli arcaici, ornati con grosse pietre di dubbio valore e di ancora più dubbia bellezza. Le dita erano longilinee e terminavano con delle lunghe unghie dipinte con un vivace smalto viola.
   Se c’è una cosa che so di questo sogno ricorrente che faccio è che quelle non sono le mie mani e non potrebbero mai esserlo, in nessuna vita: io me le mangio le unghie. Sono una persona nervosa e quando mi fanno irritare più del solito mi sfogo avventandomi contro di loro. È più forte di me, non riesco a trattenermi.
   A questo punto del sogno quindi è sempre lo stesso pensiero a sfiorarmi: “Non possono essere mie queste mani” e subito dopo un altro pensiero mi colpisce con più forza e mi lascia senza fiato. Questa è la parte dell’incubo che più mi ossessiona e che mi perseguita durante buona parte del giorno. Sono due settimane che faccio lo stesso sogno, notte dopo notte e ormai ho perso il gusto di andare a letto. Quell’ultimo pensiero mi martella tutto il giorno in testa.
   Eccolo quel piccolo interruttore che si preme dentro la testa e un pensiero mi assale:
   “Ti ho ucciso Calipso. Ho macchiato le mie mani del tuo sangue. Muori senza fare troppe storie.”

 

Pianterreno

 
   «Amore?» chiama una voce lontana. So chi è, ne sono certa. Ma, non lo ricordo.
   Tento di parlargli ma tutto quello che riesco a fare è sussurrargli qualcosa: «Chi sei?»
   «Amore?» la stessa voce di prima che parla lontana.
   «Chi…?» uno strappo sembra lacerare la consistenza delle cose. Riemergo in modo barbaro dal mondo dell’inconscio e torno alla realtà. Apro gli occhi e il soffitto verde pastello della mia camera mi da il buongiorno. Entra una fenditura di luce da una delle tende leggermente scostate. Mi giro a guardare la sveglia; i suoi perfetti segmenti rossi mi fissano come occhi artificiali: le 8:13.
   «Amore?» Andrea si affaccia dallo stipite della porta «Ah, sei sveglia allora.»
   Lo guardo da sotto le coperte «Ciao» è l’unica cosa che riesco a dirgli, sono ancora troppo confusa per pensare a più di una parola per volta. Mi giro dall’altra parte per godermi ancora cinque minuti di quel caldo torpore sotto le coperte. Voglio ancora qualche minuto di delizioso letargo senza pensieri, non ce la faccio ad alzarmi ora. È troppo bello qui.
   «Buongiorno a te amore. Porto io a scuola Irene, ma tu promettimi che non ti riaddormenterai. Ti conosco fin troppo bene.»
   «Grazie amore,» riesco a farfugliare «ti adoro.»
   «Lo so.» sento i suoi passi allontanarsi e fermarsi. Torna indietro «Eli, ricordati che oggi hai quella visita dalla dottoressa.» si fa serio e sottolinea ancora: «Ricordati.»
   «Cinque minuti…»
   Sento i tacchi delle sue scarpe echeggiare sul pavimento di parquet mentre si avvicina. Lo sento che si china, il suo respiro mi accarezza la pelle del collo «Va bene, va bene.» mi sbuffa con un sussurro «Ricordati. Io vado» mi saluta con un bacio morbido sulla guancia. Lo sento allontanarsi e vorrei tornare al mio torpore sotto le coperte, ma ormai sono quasi del tutto sveglia.
   Fottuto sogno ricorrente. Perché devo sognare sempre quella stramaledetta donna che muore? Non la conosco neanche! Dannata lei e dannata la mia stupida testa. Devo farmi vedere da uno bravo, hanno ragione le mie amiche: non sono del tutto a posto.
   Rimango ancora qualche secondo ad occhi chiusi, avvolta dal caldo riposante delle coperte. So che dovrei alzarmi ma sto troppo bene qui sotto. Non si potrebbe vivere tutta una vita a letto?

 

Piano 1.

 
   «Non capisco» è la prima cosa che riesco a dire. Non mi piace questa situazione, ma ormai ci sono abituata. Tanto vale portarla avanti fino alla fine «Le giuro che non capisco.»
   «Cos’è che non capisce?»
   «Non capisco perché faccio sempre quello stramaledetto sogno.» fisso con rabbia il soffitto dello studio. Quel bianco asettico mi turba e la mia rabbia si somma a quella del sogno «Secondo lei perché lo faccio? Non ha alcun senso!»
   «Sei sicura?» dice la dottoressa. Non la vedo in faccia, ma percepisco la sua sicurezza dal tono di voce asciutto. Continuo imperterrita a fissare il soffitto candido ed irritante del suo studio. Stringo i pugni finché sento le unghie conficcarsi nell’esile carne del palmo delle mani.
   «Faccio solo sogni strani,» le rispondo tra i denti «non sono una cazzo di schizzata!»
   Silenzio. Ormai ho occhi solo per il pallore del soffitto, eppure lo percepisco. Il suo silenzio mi parla molto più delle sue parole. Mi logora; quell’insulso silenzio mi logora i pensieri, mi insinua dubbi. Sono talmente tanti che non riesco neanche a fissarli: chi è Calipso? come faccio a sapere il suo nome? perché è nei miei pensieri? perché la vedo morire? perché io? perché di tutto questo?
   «Perché?» domando al bianco.
   «Perché… cosa?»
   «Perché?» ripeto. Parlo con me stessa. Ma anche con la dottoressa, col muro; anche con Calipso.
   «Perché fai sogni strani? Siamo qui per scoprirlo» La dottoressa fa una pausa.
   «Perché sei qui Elisa?» la dottoressa sembra assumere un tono di voce confuso. È spiazzata da questo mio comportamento «Sai benissimo perché sei qui. Oppure no?»
   Non le rispondo. Voglio sentirle pronunciare quelle parole, voglio sentirle scandire le sillabe di quella frase, voglio percepire il suo significato più profondo. E liberarmi da questi pensieri che mi ossessionano.
   Finalmente è lei che pone fine al supplizio «Sei qui perché devi cercare delle risposte. Lo so, in realtà sei finita qui perché qualcuno ti ha mandato a cercare quelle risposte. Guardami.» Non ha urlato quel guardami ma il suo tono è comunque autoritario. Non ho voglia di guardarla in faccia, tantomeno di ubbidirle come un cagnolino ben addestrato. Ma voglio le mie risposte, quindi l’accontento. Stacco gli occhi dal soffitto e sento come uno strappo. Non è proprio uno strappo però ha lo stesso rumore: qualcosa dentro mi si lacera. Cerco il suo viso, il suo sguardo rassicurante da psicologa, i suoi occhi bruni, roventi come le castagne sul fuoco. Mi rassereno all’istante.
   «Sei qui» continua lei «perché adesso abbiamo messo le cose in chiaro. Abbiamo chiarito che non sei obbligata a venire. Puoi lasciare questo studio quando vuoi: mi basta firmare le carte e dichiarare che sei venuta alle sedute e tutto è a posto. Sei libera.» Mi scruta con quei suoi occhi marroni ed è come se mi guardasse dentro. Non mi sono mai sentita così; ed è per questo che vengo.
   «Voglio le mie risposte.»
   «Bene.» si congratula lei «Allora sai cosa fare e sai anche a cosa serve la chaise longue. Non usarla per sfuggire alle mie domande, sarebbe inutile. Guarda quel soffitto e usalo per evadere da questa realtà, da questo istante. Non ci siamo più io e te, questo studio non esiste, niente esiste più. Ci siete solo tu e i tuoi ricordi. Lasciati alle spalle le emozioni. Ricordi cosa ci siamo dette la scorsa volta che sei venuta?»
   Non riesco a staccarle gli occhi di dosso; mi sta bruciando con lo sguardo e non posso che dirle la verità.

 

Mezzanino

 
   Ripenso all’ultima volta che sono venuta, era la prima seduta. L’impiegata dell’assicurazione aveva telefonato a casa dandomi il numero della dottoressa Scippia. “Una donna gentile, indiscreta e professionale” l’aveva definita e non aveva tutti i torti. Poi aveva ribadito velatamente che era necessario che io mi sottoponessi a queste sedute. Nulla di serio certo, però…
   L’incidente mi aveva provato lo ammetto. Dopotutto chi non sarebbe turbato dopo un volo di venti metri con la macchina dentro il letto di un fiume in piena?
   “È stata fortunata” avevano detto i medici quando mi avevo ripreso coscienza in ospedale “il livello dell’acqua era così alto da attutire l’impatto. La corrente ha poi trascinato la macchina in una insenatura naturale poco lontano. Era bassa in quel punto l’acqua.”
   Una questione di fortuna quindi, nient’altro che fortuna. Quindi gli accertamenti psicologici voluti dall’assicurazione per poter guidare anche la macchina di mio marito erano proprio necessari. Sono necessari. Ripensai a quel primo incontro, all’imbarazzo di sembrare un caso clinico, alla rabbia di dover sopportare un interrogatorio da uno strizzacervelli. E mi tornò in mente come la dottoressa mi aveva tranquillizzato e come aveva cercato di essermi amica. Non proprio amica certo, come si fa ad essere amici di una persona sconosciuta? Accomodante e disponibile però sì. “Una donna gentile, indiscreta e professionale” proprio come aveva detto la ragazza dell’assicurazione.

 

Piano 2

 

   Pescai dai ricordi la frase che più mi aveva colpito dello scorso incontro e la ripetei: «Non rendere tutto più difficile, sono qui per aiutarti. E le uniche persone che possono essere aiutate sono quelle che vogliono essere aiutate.»
   «Esatto. Ora approfondiamo l’analisi. Stavamo parlando del tuo sogno. Entriamo nel dettaglio»
   La dottoressa rilegge gli appunti dal suo blocco notes e snocciola una serie di frasi che ho detto riguardo il sogno.
   Strana donna penso. L’accontento e ripeto il rituale; torno a sdraiarmi comoda. Ha ragione, quello strappo mi infastidisce ogni volta che mi abbandono ai ricordi. È come un foglio di carta che viene dilaniato all’infinito nel suo lento rumore pungente e monotono. Ma come ha detto lei: sono qui per avere delle risposte.
   La dottoressa continua il suo monologo: «Freud diceva che in genere non si è in grado di interpretare i sogni di un’altra persona, se questa non intende fornire i pensieri inconsci che stanno dietro il contenuto del sogno. In pratica non ti posso aiutare se non ti lasci andare. Ricominciamo: hai detto “vedo le sue labbra bianche e secche. Hanno dei solchi di pelle morta, mi fa senso”. Cosa ti viene in mente pensando a queste esatte parole che hai usato? Le colleghi a particolari ricordi? Parlami delle prime cose che ti passano per la testa.»
   Faccio mente locale: le prime cose che mi passano per la testa?
   «Ha le labbra bianche» comincio a raccontarle mentre i ricordi riaffiorano «le labbra bianche mi ricordano mio padre in punto di morte. Ha le stesse labbra bianche e raggrinzite. Sono labbra provate dalla malattia, dall’assenza di idratazione, dall’assenza di coscienza. Era in un letto di ospedale in coma già da diversi giorni quando se ne andò.»
   Le parlo di mio padre, della sua morte e della mia sofferenza. Tuttavia c’è dell’altro, qualcosa di cui non mi va di parlare, qualcosa che mi terrò dentro.
   Mentre le parlo sollevo la mano sinistra in modo da poterla vedere solo io. Mi spaventa la vista di quella mano perché so che nel sogno è mia ed è la mano che uccide Calipso. Poi il ricordo vivido del sogno mi arriva nitido come un pugno alla mascella e mi blocca. Smetto anche di parlare alla dottoressa e i miei pensieri si arrestano: dalla memoria affiora nitido quell’ultimo frammento di sogno che non ero mai riuscita a ricordare.
   «Cosa c’è, Elisa…?» domanda la dottoressa ma è come se fosse dalla parte opposta di una vallata. Non ci faccio neanche caso. «Tutto bene?» insiste.
   Non la sento, è come se esistessimo solo io, il sogno e quell’antico pugnale che tengo in mano alla fine del sogno. “Kriss” penso senza rendermene conto, come se mi venisse suggerito da un recesso della memoria sconosciuto. È un pugnale finemente lavorato, con la lama ondulata che mi ricorda un serpente. L’arma difatti è fitta di intagli orizzontali ondulati di una diversa sfumatura di grigio che fanno pensare proprio alla pelle di un serpente, mentre una lunga e sottile incisione in una strana lingua percorre verticalmente tutta la lunghezza della lama. “Pamor Badit” pronuncio in un sussurro.
   ~ Strega!
   Il simbolo inciso sull’elsa è la cosa che mi colpisce di più: un volto demoniaco e inquietante, con grandi occhi e orecchie e due paia zanne che escono dalla bocca; è al centro di un esagono inscritto in un cerchio. “Il demone Bhoma che veglia sul mondo” mi suggerisce nuovamente una reminescenza sopita. Una scritta che circonda il cerchio conferma i miei pensieri: “Elizabeth – III ORDINE di Bhoma”.
   ~ Khodam tuah
   Cosa significa Khodam tuah? mi chiedo e subito dopo mi rispondo da sola “Khodam tuah, sono io. Khodam tuah, è la mia vita. Khodam tuah, è tutto.”
   ~ Strega!
   Sto diventando pazza, è ufficiale. Poi così male non mi è andata: sono nello studio di una psicologa, una di quelle che ti strizzano il cervello. Per loro è semplice; ti aprono la scatola cranica, rovistano sbatacchiando tutto quello che trovano un po’ qua e un po’ là. Non gliene importa niente. Non gliene importa niente. Niente!
   Devo smetterla, cerco di dirmi per darmi una scossa.
   “Smetterla di fare cosa?” la voce che mi risponde è sempre la mia ma è un pensiero diverso.
   “Diverso da chi?” d’accordo, sono spaventatissima. Che cavolo sta succe…
   “Spaventatissima? Te la stai facendo addosso!”
   «Chi diavolo sei?» urlo a quella voce con tutta la forza che ho.
   “Io? Chi sono io?” mi risponde la voce con un tono malizioso “Chi-sono-io?” ripete. Scandisce lentamente le parole “Chi sei tu?” per sottolinearle.
   «Stronzate! Te l’ho chiesto prima io! E poi sei tu che sei nella mia fottuta testa!»
   “Io sono Elizabeth. Ora rispondi: chi sei tu?”
   Elizabeth… il pugnale del sogno… Non ce la faccio a reggere una conversazione nella mia testa con una cazzo di schizzata. Dio devo essere proprio partita per la tangente. Ogni tanto succede: qualcuno si sta facendo gli affari propri, vive normalmente la sua vita, va al lavoro, a portare i bambini a scuola e un bel pomeriggio BOOM! Gli scoppia il cervello. Si ritrova in testa nient’altro che poltiglia. Può succede…
   “Chi-sei-tu?” ripete insistente la voce.
   Già, chi sono io. I pensieri mi si affollano in grovigli che tessono strane trame. Non riesco a fermarli mentre vorticano confusi. Non capisco neanche più dove mi trovo. Sarò in uno ospizio, in una di quelle case di cura forse dove tengono i vecchietti e i malati di mente a pascolare liberi nei loro pensieri terminali.
   “Elizabeth, chi-sei-tu? Chi-sei-tu? Guardati in faccia, sentiti parlare. Chi-sei-tu?”
   E poi capisco, tutto è più chiaro. I pensieri si calmano, si allineano. Alcuni si congiungono dove altri finiscono e tutto riprende uno schema preciso e completo.
   “Io sono Elizabeth, terzo ordine delle streghe di Khodam Tuah, veneratrici e protettrici di Bhoma, il guardiano del mondo.”
   So cosa fare, ora lo so.
   «Elisa» la dottoressa mi scuote per la spalla. La guardo in viso e sembra essere veramente preoccupata «Elisa, Elisa, mi senti?»
   Sbatto gli occhi inebetita e le rispondo «Sì, la sento.» La allontano irritata, ora so cosa fare. Non so perché ma so che devo farlo «Mi scusi, devo andare.»
   «Come devi andare?» mi dice sorpresa della mia reazione inattesa. Mi alzo.
   «Devo tornare a casa,» le dico senza guardarla. Vado all’attaccapanni a prendere il cappotto e la borsa «trovare il mio pugnale, l’involucro del mio Tuah, l’arma che mi protegge col suo Pamor Badit. E uccidere Calipso»
   Lascio lo studio sbattendomi la porta alle spalle. Sembra incredibile ma ora so chi sono. Assolverò il mio compito e sarò libera come non lo sono mai stata.
 


 
Il racconto “La morte di Calipso” è stato pubblicato anche sul blog “Stryx: il marchio della strega” all’indirizzo:
http://stryxilmarchiodellastrega.blogspot.com/2012/02/la-morte-di-calipso-di-michael.html
per il concorso di racconti urban fantasi: http://stryxilmarchiodellastrega.blogspot.com/2012/01/concorso-di-racconti-urban-fantasy.html