Al di là della realtà [Racconto]


Quando mi svegliai erano le 18:11 del 5 maggio 2013. Lo so perché il mio cronografo da polso indicava quella data e quell’ora. 5 Maggio. Non dimenticherò mai quella data, mi rimarrà impressa per sempre nella memoria come un marchio a fuoco sulla carne viva dei ricordi.
   Il pomeriggio stava tramontando, ma il sole resisteva alto nel cielo limpido e l’aria era ancora calda. Mi asciugai la fronte dal sudore e mi misi a sedere. Mi ero svegliato di soprassalto, guardando l’azzurro pulito e sconfinato. Ero sdraiato per terra in una posizione scomoda e il braccio che era rimasto schiacciato sotto la schiena era insensibile.
   Mi guardai intorno perplesso: mi trovavo in una strada a due corsie per ogni senso di marcia, un basso spartitraffico divideva in due la carreggiata e ai lati della strada c’erano enormi palazzi privi di vita. Nessun rumore, nessun movimento.
   Mi trovavo al centro di una delle corsie e non capivo dove fossi o come avessi fatto ad arrivare fin lì. Non ricordavo niente di niente; feci mente locale: il mio ultimo ricordo risaliva a…
   «Un anno fa?» mi chiesi con stupore. Guardai ancora il cronografo. Non potevo crederci, quell’aggeggio doveva essere completamente impazzito. «Porca puttana!» imprecai. Oggi doveva essere il 9 Maggio 2012, era l’ultima cosa che mi ricordavo. Lo so perché quel giorno era importante: mia figlia aveva compiuto un mese. Un flashback mi venne in aiuto: stavo lavando i piatti perché Giulia doveva allattare la piccola. Sentivo Paolo che giocava con le sue costruzioni e ricordavo in modo distinto il suono della spugna dei piatti che mandava il suo strofinio, la sensazione sotto i polpastrelli del tessuto spugnoso che si comprimeva e scorreva sulla superficie del piatto lasciandosi dietro il suo strato di schiuma. Poi il vuoto. La strada era vuota. Tutto era vuoto e arido.
   Il vento spazzò l’aria con qualche refolo e una persiana del palazzo ruotò in un lento scricchiolio sui suoi cardini. Alcune cartacce si agitarono nell’aria. Un grande graffito imbrattava il muro di uno dei palazzi, la scritta di un blu acceso e con i contorni argento sosteneva: “Love will survive us, hate will divide us.”, l’amore ci sopravviverà, l’odio ci dividerà. Strano gioco di parole.
   «Dove cazzo sono finito?» gridai al vento, come se potesse rispondermi in quel posto dove la vita sembrava aver lasciato spazio alla desolazione «E dove cazzo sono finiti tutti?»
   Avevo sete e mi era tornata quella strana sensazione che provavo sempre prima di prendere il giubbino e buttarmi a capofitto per le scale in direzione del bar. Avevo sete ma non avevo voglia di bere per dissetarmi, volevo sbronzarmi e continuare a bere fino a perdere coscienza del mondo. Odiavo quella sensazione di bramosia, ci avevo messo anni e terapie e soldi per farmela passare. E ora eccola di nuovo.
   Mi passai la lingua sulle labbra e guardai in giro, ma non vidi nessun bar o negozio di liquori che potesse servire per l’occasione. In quel posto merdoso non c’era la minima traccia di una qualsiasi forma di alcolico. Abbassai lo sguardo sconsolato e notai due piccoli oggetti che mi fecero riafferrare saldamente la realtà: un piccolo quaderno di pelle nero e una penna stilografica.
   Raccolsi i due oggetti e li tenni in mano di fronte a me: mi ricordavano qualcosa, trasmettevano una sensazione amichevole, non solo alla vista, ma anche tenendoli stretti nelle mani: toccare la superficie ruvida della pelle naturale, il contatto con la stilografica, perfetta nella sua levigatura artificiale. Era pura poesia per i miei sensi intorpiditi da quel brusco risveglio nella terra di nessuno, suonava come un’orchestra nella mia mente.
   Aprii il quaderno: vuoto. Feci scorrere le pagine e nel loro fruscio vidi solo fogli vuoti. Arrivato in fondo notai una delle ultime pagine riempita di parole e tornai indietro. Era scritta al contrario, probabilmente perché avevo raccolto e aperto il quadernino nel verso sbagliato. Lo girai e lessi: «…guardai intorno, ero perplesso: mi trovavo in una strada a due corsie per ogni senso di marcia,» rimasi allibito: erano esattamente gli stessi pensieri che mi erano turbinati in mente un attimo prima osservando dove mi trovavo. Continuai a leggere per capire fino a che punto la buca di Alice fosse profonda «un basso spartitraffico divideva in due la carreggiata e ai lati della strada c’erano enormi palazzoni privi di vita. Nessun rumore, nessun movimento»
   Quel quaderno conteneva i pensieri che avevo fatto poco prima. La situazione era irreale e fastidiosa: mi ero svegliato in un luogo mai visto con un quaderno che conteneva i miei pensieri.
   «Merda, credo di essere impazzito.»
   Chiusi il libretto e lessi il titolo sulla copertina. “Imaginari” recitava una grande scritta argento al centro dello sfondo nero.
   Imaginari rimuginai. D’istinto sfogliai il squadernino, cercai una pagina vuota e aprii la stilografica svitando il tappo. Non so perché lo feci, ad oggi non riesco ancora a crederci, ma scrissi “Un uomo in completo nero gessato uscì dal portone del palazzo con fare frettoloso. Sbatté il portone e cominciò a correre lungo il marciapiede con la valigetta che gli sbatacchiava lungo il fianco.”
   Pensavo di dover attendere, ma prima ancora di mettere il punto sentii il clac netto di una serratura che scattava. Alzai lo sguardo e vidi l’uomo che avevo appena descritto uscire come un lampo dal portone, sbatterlo con un gran fracasso e correre lungo il marciapiede con la valigetta di pelle marrone che si agitava qua e là.
   «Incredibile» sussurrai. Non potevo credere a quello che era appena successo. Per qualche secondo restai inebetito a fissare il punto lungo la via dove era sparito. «Se non era un’allucinazione allora…»
   Mi portai la penna alle labbra e mi misi a pensare fissando l’azzurro cobalto del cielo all’orizzonte. Ora il sole era calato e di lì a un’ora sarebbe tramontato. Rimuginai sul quaderno e su quello che era appena successo. Se quel quaderno conteneva tutto ciò che pensavo e che succedeva, quando ci avevo scritto sopra avevo attivato il quaderno e lui aveva reagito di conseguenza. Poi mi tornò alla mente un particolare: Imaginari diceva la scritta sulla copertina. Non mi intendevo di lingue ma non ci voleva poi molto a coglierne il significato. Decisi di provare ancora a scrivere.
   “Una bizzarra mucca gialla muggì dall’altra parte della strada cogliendomi di sorpresa. Mi guardava distratta masticando.”
   E la mucca che muggiva e mi fissava c’era davvero dall’altra parte dello spartitraffico. Masticava erba fissandomi. Ed era anche gialla. Risi come un deficiente senza riuscire a controllarmi.
   «Porca… Divertente questo coso» Sì, divertente, ma ora volevo spingermi oltre. Dovevo spingermi oltre. Scrissi poche righe e, una volta messo il punto, attesi con gli occhi chiusi.
   «Matteo,» fece Giulia dalla sala «tutto bene?»
   Aprii gli occhi: i piatti insaponati erano nel lavandino e in mano tenevo il quaderno ancora aperto e la stilografica. Chiusi le penna e la misi in tasca insieme al quaderno ancora stordito.
   «Tutto bene amore, finisco di lavare i piatti e arrivo». Avevo trovato la mia fantasia e ora ce l’avevo in tasca. L’avrei tenuta con me per sempre.